Quando non ero Montraxia
“Montraxius” era il nome con cui venivamo chiamati tutti noi bambini che abitavamo al di là del fiume. Montraxius. L’argine, che costringe gli autisti a eseguire una strettissima curva a U, venne costruito tanto tempo fa per contenere le piene invernali del fiume Cixerri. In famiglia si racconta che anche mio nonno partecipò alla sua costruzione. O forse era mio bisnonno. Non lo so. Quello che so è che per tutta la mia infanzia l’argine del Cixerri ha rappresentato il confine fisico che separava noi Montraxius, montanari, campagnoli, figli di pastori a frag’è madau per dirla tutta, dai profumati e ordinati bambini de bidda, del paese. Non era bello essere Montraxius. Innanzitutto i bambini della montagna erano sempre i primi ad arrivare a scuola, perché il pulmino passava a prendere quelli “più lontani”. E poi erano sempre gli ultimi ad arrivare a casa perché l’autista doveva portare a casa per primi i bambini che abitavano nel paese. Così, portato l’ultimo bambino di bidda, noi Montraxius urlavamo felici “A monti! A monti signor Pillai!”. Io non mi sentivo Montraxia, anche perché mio papà non faceva il pastore e quindi lui non puzzava di pecora e di capra come i papà degli altri bambini della montagna. Io non ho mai incontrato i papà degli altri bambini Montraxius, ma so che facevano i pastori, e i pastori si sa, puzzano come i loro animali, puzzano di formaggio. O almeno questo era quello che dicevano i bambini ‘puliti’ del paese. E a me il formaggio proprio non piaceva! No, mio papà non puzzava di pecorino, e nemmeno di capra, mio padre profumava di fiori e di sapa. Mio papà faceva un lavoro straordinario, praticamente un supereroe, era in grado di parlare con la natura e conoscere il linguaggio di quegli insetti pelosetti che ad alcuni fanno tanta paura ma che a me piacevano tanto. Mio padre faceva l’apicoltore. Lo dicevo gonfiando il petto, orgogliosa: mio padre è apicoltore! Per me era il lavoro più bello del mondo. Mio papà non andava in ufficio come i papà degli altri bambini del paese, e neppure indossava una divisa. O meglio, ne indossava una, ma era diversa dalle solite divise: una tuta bianca, guanti di pelle, una maschera e degli stivaloni. La tuta era sempre sporca di una sostanza nera appiccicosa che si chiama propoli. Mi aveva detto che anticamente la propoli era usata per disinfettare le ferite e per curare il mal di denti. Non ero molto convita, però se lo diceva papà doveva essere vero. Lui era un esperto in cose della natura. I suoi super poteri erano: parlare con le api, aiutarle a tornare a casa, conoscerle tutte per nome e salvarle dagli animali cattivi. Era un lavoro importante il suo, e non poteva fermarsi nemmeno la domenica. Tranne quando giocava il Cagliari. Allora papà non doveva andare alle api.
Ero contenta che mio padre fosse un apicoltore, anche se gli apicoltori non sono fortunati come i pastori.
Nonostante l’opinione che avevano i bambini del paese, a 8 anni ero convinta che i pastori fossero i più ricchi e fortunati del mondo perché se fosse scoppiata una guerra sarebbero stati gli unici ad avere da mangiare: latte, formaggio, carne di pecora e persino lana per coprirsi dal freddo!
Per tutte queste cose io non potevo essere Montraxia e nemmeno una di bidda. Insomma, per dirla tutta non sapevo cosa fossi, però ero contenta di essere la figlia di un apicoltore e di abitare dall’altra parte del Cixerri, e anche io urlavo “a monti!” quando l’ultimo dei bambini del paese scendeva dal pulmino.
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