Intervista a Paolo Fontana.
Di Greca N. Meloni
Ultimamente il crescente numero di casi di infezione da West Nile Virus (Wnd), o Febbre del Nilo, avrebbero fatto crescere la necessità in diverse regioni e centri locali, di attuare piani di disinfestazione contro le zanzare per combattere la diffusione del virus. Sembra diventata l’unica soluzione percorribile, dunque, quella di “utilizzare senza risparmio qualunque mezzo a nostra disposizione per farle sparire dove l'uomo è costretto a coabitare con loro.” Così si è espresso recentemente il medico Roberto Burioni in un post diffuso sul social network Facebook.
Eppure, ogni volta che sento parlare di disinfestazioni a tappeto mi ritorna in mente la campagna di “igiene pubblica” intrapresa da Mao Zedong in Cina a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso contro zanzare, mosche, ratti e passeri. L’intervento ebbe conseguenze disastrose sugli ecosistemi, e sugli insetti impollinatori, tanto che in alcune regioni della Cina si pratica ancora oggi l’impollinazione a mano.
Ma si può dire che anche in questo caso il vero rischio siano le conseguenze delle nostre azioni sul lungo raggio? Più precisamente, le disinfestazioni che dovrebbero metterci al sicuro dalle zanzare potrebbero avere effetti negativi su altri insetti fondamentali per la nostra sopravvivenza come le api ad esempio?
Da antropologa mi sono chiesta se esiste un modo per l’uomo per imparare ad “anticipare” o “prevedere” gli effetti del nostro “fare” sul mondo.
Per sciogliere questo dubbio ho chiesto a Paolo Fontana, entomologo della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (Trento) e presidente di World Biodiversity Association Onlus, che da oltre 25 anni fa ricerca nei diversi ambiti dell’entomologia applicata, dell’ecologia e della conservazione della biodiversità. Recentemente ha pubblicato il libro dal titolo Il piacere delle api. Le api come modello di sostenibilità e l’apicoltura come esperienza della natura e della storia dell’uomo (WBA Project Ed., 2017), interessante testo che introduce il lettore alla storia delle api e dell’uomo, ovvero all’api-cultura.
Paolo, tu hai fatto dell’apicoltura sostenibile o naturale, e dell’utilizzo dell’arnia top bar un po’ il tuo cavallo di battaglia. Potresti brevemente raccontarci la tua esperienza con l’apicoltura top bar? Quali sono i benefici?
Per dirla in breve l’arnia top bar non è una o la soluzione ma un mezzo. L’apicoltura naturale e sostenibile credo siano ormai una esigenza e non una opzione e l’apicoltura con arnie top bar, in cui le api si sviluppano in modo molto naturale dovendo costruirsi tutti i favi da sole come avviene in natura, ci aiuta a capire le vere esigenze e le vere caratteristiche delle api mellifiche. L’arnia top bar è davvero perfetto per una apicoltura di tipo familiare e direi, contemplativa, ma è anche uno strumento di conoscenza per l’apicoltore professionista. Quando nel 2014 ho incontrato Jurgen Tautz, autore de Il ronzio delle api, e ho scoperto che per i suoi studi di altissimo livello questo scienziato usava arnie top bar, mi è crollato tutto un mondo di sicurezze. Sono ripartito a testa bassa e ho ripercorso le mie conoscenze di entomologo e di apicoltore.
Oggi si parla tantissimo di biodiversità, e soprattutto di tutela della biodiversità. Ma cosa significa?
La biodiversità è secondo me la legge fondamentale della vita, cioè senza diversità non può esserci evoluzione e senza evoluzione tutte le specie viventi sono destinate a scomparire in un mondo in continuo mutamento. La vita è fatta di diversità e tutto quello che riduce, altera o distrugge la biodiversità mette in pericolo la sopravvivenza di tutti gli organismi, compreso quel meraviglioso animale che è Homo sapiens.
Veniamo al nocciolo della questione: le disinfestazioni contro le zanzare. Esiste un pericolo concreto per le api (non solo le api da miele ma tutte le api)?
Esistono eccome. Se per eliminare le zanzare si adottano pratiche insensate come i trattamenti adulticidi, che prevedono la distribuzione negli ambienti di insetticidi a largo spettro di azione come i piretroidi ad esempio, il danno creato a tutti gli organismi di quegli ambienti è di gran lunga maggiore del beneficio. La vera lotta alle zanzare si fa riducendo la loro possibilità di svilupparsi e prevede azioni pianificate sul territorio con il coinvolgimento delle persone del luogo. Quando a Padova è arrivata, ormai alcuni decenni fa, la zanzara tigre, per alcuni anni l’Università di Padova ha coordinato per il comune la campagna di disinfestazione, con un servizio porta a porta che funzionava. Ma costava e quindi si è passati alla foglia di fico dei trattamenti adulticidi che non hanno dato altro risultato che far vedere ai cittadini che si sta facendo qualcosa. Ma in realtà con tali pratiche secondo me si stanno solo buttando dei soldi.
Esiste un campo di indagine in antropologia che viene definito “multispecie” in cui gli antropologi cercano di utilizzare gli strumenti del loro sapere per suggerire nuovi modi di pensare il rapporto tra esseri umani ed esseri non umani, vegetali o animali.
In Germania si è recentemente costituito un gruppo di lavoro che include antropologi, biologi, entomologi, tecnici, educatori e molti altri, e che ha lo scopo di aiutare la comunità pubblica a conoscere le conseguenze del proprio agire sul mondo e suggerire al mondo politico a intraprendere politiche che tengano conto dell’importanza degli insetti impollinatori. Ecco, per noi che ci troviamo in Italia, cosa si potrebbe “pensare” di diverso? Perché è difficile pensare alle api, e all’apicoltura, quando si formulano i piani di gestione del territorio, di tutela ambientale e di prevenzione della sanità pubblica?
La nostra prima e forse maggiore difficoltà sta nel fatto che l’uomo ha la tendenza a sentirsi “altro” dalla natura. Viviamo in una sorta di antagonismo con le leggi della natura perché ce ne sentiamo estranei. Darwin ci ha dimostrato che tutti gli organismi viventi hanno origini comuni, il difficile è comprendere che tutti questi organismi sono legati dal medesimo destino. L’uomo non può sopravvivere al di fuori della natura e la natura non può prosperare senza l’uomo perché l’uomo ne è una componente davvero importante. Comprendere che la diversità è un concetto fondamentale per la vita, anche la nostra, ha ricadute sia nel rapporto dell’uomo con gli altri organismi che all’interno della società umana. Il diverso, l’altro, non sono mai il nemico ma la risorsa, il necessario. Ma questa consapevolezza deve poggiarsi non su sentimentalismi o su mode pseudo filosofiche. L’ambientalismo, l’animalismo, le diete estremistiche, il rifiuto del progresso, non sono risposte ma sintomi di esigenze profonde. Bisogna sempre partire da solide conoscenze scientifiche.
La Carta di San Michele all’Adige può essere uno strumento utile in questo senso?
L’Appello per la tutela della biodiversità delle sottospecie autoctone di Apis mellifera Linnaeus, 1758 in Italia, ovvero la Carta di San Michele all’Adige, parla di api, di apicoltura, dell’ambiente e dell’uomo. È un documento scientifico che pone dei problemi e tratteggia delle possibili soluzioni. Sul tema del rapporto millenario uomo-api-ambiente costituirà una pietra miliare ma questo documento è importante anche per un altro e forse più alto motivo. Questo documento scientifico è importante per il modo con cui è stato realizzato. Il testo è stato meditato e scritto da una comunità scientifica; è dunque l’espressione di una collegialità che ha mediato al suo interno per dare una visione scientifica comune e condivisa su un problema gravissimo, quello del deterioramento genetico delle popolazioni locali di Apis mellifera. Questi insetti sociali, utilizzati da millenni dall’uomo attraverso l’arte dell’apicoltura, sono anche organismi chiave per la conservazione degli equilibri naturali nelle rispettive aree di origine. La Carta di San Michele all’Adige mette concretamente sul tavolo l’esigenza di tutelare la biodiversità dell’ape mellifica, ma non in alternativa alla produttività dell’apicoltura anzi, evidenzia che senza questa tutela l’apicoltura stessa non potrà più sussistere a lungo come attività produttiva. Questo documento dimostra come tutela della biodiversità e profitto non sono alternativi ma complementari. Certo che una visione così chiara potrebbe anche far paura, ma le risposte alle problematiche sollevate dalla comunità scientifica andranno individuate da tutti gli attori: politici, studiosi imprenditori apistici e loro rappresentanze e ovviamente anche il mondo dell’agricoltura deve esservi coinvolto. Le soluzioni andranno individuate nell’ottica di una salvaguardia complessiva degli equilibri naturali, economici e sociali e quindi della sostenibilità.
In altre parole, La Carta di San Michele all’Adige suggerisce che dovremmo prendere coscienza su come anche l’uomo, con il suo fare e il suo pensare, contribuisce a creare quella che diciamo “biodiversità”.
C’è una frase di Paolo Fontana che è di estremo interesse non solo per questa intervista, ma perché in generale suggerisce che dovremmo imparare a ripensare la “grande divisione” tra Natura e Cultura: “L’uomo non può sopravvivere al di fuori della natura e la natura non può prosperare senza l’uomo”. Questo è un tema caro agli antropologi.
Forse è solo ripensando la nostra posizione nel mondo che saremo in grado di capire il nostro ruolo all’interno di questo grande ecosistema. Tuttavia, come dice ancora Paolo Fontana, riconsiderare il nostro modo di rapportarci con gli esseri viventi “non umani” richiede molto coraggio e certamente un impegno non solo da parte degli studiosi di tutte le discipline, ma di tutti coloro che vivono i territori e che traggono da questi sussistenza e beneficio.
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